Autore: Stefano Cavallini
Intro : Quisitaffia
Ho sempre avuto gusti musicali discutibili, tipo ascoltare Justin Bieber o le playlist di musica latina.
E’ la dura e triste realtà di quelli che sono nati come me.
Di Guccini conosco poco, e forse questo si può annoverare tra i difetti di un bolognese (e potete mandarmi anche a fare in culo, ma forse apprezzerete questo pizzico di sincerità)
Una sera di fine estate stavamo parlando dei miei gusti musicali di merda con Andrea e Stefano, due amici storici, di quartiere, che mi accettano per quello che sono senza mai giudicarmi.
E non lo fecero nemmeno quando esclamai: “Purtroppo ragazzi voi lo sapete..io non ascolto Guccini e non sono nemmeno mai stato da Vito”.
Cala un breve momento di silenzio.
Cerco di smorzarlo subito dicendo: “Va be ma ci andiamo no? ”
Sentivo che mi mancava un pezzo, e anche se ho 31 anni ed ero in tremendo ritardo, sentivo questo impulso come a voler recuperare qualcosa e mettermi in pari; volevo poter dire anche io di essere stato nella trattoria dove il grande Lucio Dalla e Guccini pasteggiavano, bevevano e si ubriacavano bevendo vino a profusione probabilmente (beati loro).
“Vito è un istituzione a Bologna, ma è cambiato”.
Dentro di me pensavo e, parafrasando un famoso macellaio fiorentino, ho pensato : “Si ok ma io che cazzo ne so di come era prima Vito?”
Questo era il punto.
Sentivamo il bisogno di parlare di questo,di cos’era Vito e di perché forse rimane ancora una delle trattorie dove respirare quel tempo passato di una Bologna che sopravvive a fatica.
Tanto vale farvelo raccontare da chi,da Vito, ci andava già 15 anni fa.
“Nel 2007 avevo diciassette anni e frequentavo la quarta superiore al Galvani. Per qualche imprecisato motivo il venerdì andavamo a scuola il pomeriggio. Il giovedì si poteva dunque uscire e stare fuori fino a tardi. Dietro indicazione di un amico avvezzo al mondo gucciniano una sera decidemmo di cenare da Vito, insieme a un altro nostro compagno di classe. Cominciammo ad andarci ogni giovedì e dopo tre mesi eravamo ormai degli habitué, avendo acquisito una solida routine mangereccia che ripetevamo immutabile di volta in volta. In tre, queste erano le portate:
– cinque primi: due tortellini in brodo e uno alla panna (il mio, potete insultarmi), più due maccheroncini alla boscaiola da condividere. Nelle serate gloriose, invece dei maccheroncini, doppia porzione di tortellini, corrispondenti a due pirofile stracolme.
– tre secondi: due arrostini e per me uno stinco. A volte anche trippa, o quando c’erano le polpette.
– due o tre contorni, di solito friggione o patate al forno.
– tre bottiglie dell’introvabile e misterioso lambrusco Terre Nere, che si vendeva unicamente lì, servito a temperatura artica in bicchieri a coppa di foggia squadrata, usati unicamente lì. Negli anni successivi, avrei cercato a lungo il Terre Nere in altri ristoranti senza trovarlo mai. Sei mesi fa, durante un giro in bicicletta, ho scoperto per caso che lo producono a Calderara di Reno, a cinquecento metri da dove abito.
– zero acqua
– tre dolci: affogato al caffè (negli stessi bicchieri del vino), o zuppa inglese, o torta di riso.
– tre sambuche con la mosca.
Il tutto, mi sembra, per circa trenta euro a testa. Dopo andavamo a casa di uno dei tre in una villa in zona Murri (dove c’era un passaggio segreto) e bevevamo mignon di assenzio nella sala cinema in taverna guardando film di Woody Allen. Sì, non era povero.
All’epoca si avevamo altri fisici e reggevamo la cena senza troppi problemi. I tortellini arrivavano fumanti e il vino sparava fulmini e barbariche orazioni. Ad ogni bicchiere rimbalzavano le nostre filosofie adolescenziali e il fumo del brodo ci immergeva in un odore di rive gauche. La clientela era ancora quella storica, anziani signori con lo spigato o il paltò. Guccini vi faceva le ultime sortite a tarda notte e ogni tanto qualcuno suonava il pianoforte all’entrata. C’era ancora il cameriere Romano e il suo collega dagli occhi di brace che ci bestemmiava addosso sorridendo. Le bottiglie di vino potevi prenderle direttamente dal frigo. Tutto era poetico e luminoso.
Due giorni fa, dopo quindici anni che non ci andavo (con l’eccezione di una fugace cena otto anni fa), sono tornato da Vito. Per cominciare, eravamo sempre in tre. Il luogo è rimasto identico a sé stesso e sembra inscalfibile negli anni: la stessa allegria polverosa, le stesse foto ingiallite di Dalla e Guccini alle pareti, le stesse tovaglie a quadrettoni, la stessa aria satura di grembo smunto, ma dignitosa e rassicurante, come una vecchia credenza di famiglia nel salotto dei nonni.
Ci siamo seduti al tavolo, che è sempre quello: stesso pane, tovaglia, bicchieri e posate, e abbiamo dato un’occhiata al menù: qui abbiamo trovato i primi cambiamenti: se i tortellini e lo stinco erano solide sicurezze, la cotoletta alla bolognese è stata una piacevole novità. Purtroppo, non abbiamo visto Romano, al suo posto un ragazzo cortesissimo che ci ha chiamato “signori” (non sono abituato).
I bottiglioni di un litro e mezzo di vino della casa non ci sono più e anche il lambrusco è cambiato; al posto del Terre Nere ora c’è il Gallo Ruspo, prodotto da I Poderi delle Rocche, un’ottima cantina di Imola. Viene servito a temperatura glaciale come un tempo, ma questa volta, visto il cambio dei camerieri, non ci siamo azzardati a prenderlo dal frigorifero. Purtroppo, anche il titolare storico, che noi chiamavamo “il paggetto” per la sua capigliatura, non c’è più. Ora al suo posto dirige tutto una donna.
Anche la clientela è cambiata. Quella dei vecchi tempi, che sembrava uscita da un racconto di Celati, è probabilmente morta. Ora ci sono tanti giovani. Ovviamente, si può fare tutto il casino che si vuole. Se volete, potete anche mettervi a cantare una canzone in mezzo alla sala. L’atmosfera conviviale si riflette nel cibo, che è senza troppe pretese, ma decisamente buono. Menzione speciale per la panatura della cotoletta, le patate al forno, lo stinco e soprattutto la torta di riso, che è addirittura migliore di quella che facevano quindici anni fa.
In definitiva, si mangia bene, si sta bene e il rapporto qualità prezzo è ottimo. Ideale per chi cerca una cucina tradizionale bolognese in uno dei templi cittadini della bolognesità. Dopo, a due passi, potete anche fare un salto alla vecchia casa di Guccini per impressionare la tipa.
È probabile che il paradiso, se esiste, sia del tutto uguale a questo locale, ma il bere non si paga e non fa male”.